Archivio mensile:novembre 2012

Everybody’s wishing you happy birthday, Jimi!

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Everybody’s wishing you happy birthday! Everybody’s wishing you real good time!” – così cantava Jimi Hendrix nella sua “Happy Birthday”.

Oggi, 27 novembre 2012, avrebbe compiuto 70 anni… Settanta candeline accese, piccole fiamme creano un’atmosfera magica, a tratti psichedelica, condita da un sottofondo musicale quasi impercettibile. Poi d’improvviso una chitarra, una Fender Stratocaster, dalle cui corde prendono vita note distorte, suoni adrenalinici e selvaggi, fiamme. Arde lo strumento, brucia con il fuoco della passione, il fuoco dell’amore per la musica. Jimi Hendrix è ancora vivo, la sua energia è ancora quella di 40 anni fa. Ora è la sua Fender che sta morendo tra le fiamme e dalle sue ceneri rinasce la musica rock.

La rivoluzione che Hendrix ha compiuto è paragonabile a quella copernicana dell’universo: la chitarra, come il sole, è al centro dell’universo musicale. Il feedback abbandona l’etichetta di “fastidioso difetto” per diventare un’arte, e la distorsione, spinta ai massimi livelli, si fonde perfettamente con la morbidezza delle linee melodiche. In ogni esibizione Hendrix entrava in simbiosi con il suo strumento raggiungendo la catarsi interiore e diffondendo nell’aria vibrazioni positive.

Le candeline sulla torta si spengono. Siamo nel 1970. Jimi Hendrix è morto e con lui un’intera epoca, quella dei grandi raduni, della contestazione in musica, della psichedelia senza confini, del rock dell’utopia estrema. Nuovi generi e nuove rockstar sono in arrivo, ma l’eco della chitarra distorta di Hendrix continua a risuonare ancora oggi. Ecco perché festeggiamo il suo compleanno: Happy Birthday, Jimi!

(Articolo originariamente pubblicato su Eclipse Magazine)

Il musicista underground

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La metro di Roma sta diventando la mia più proficua fonte d’ispirazione.

Alle 10 di ogni mattina percorro i 500 metri che mi separano dalla stazione Re di Roma con in mano il mio lettore mp3, pronta a saltare quelle canzoni che non riescono a tenere il mio passo. Al 499° metro mi fermo ad osservare la vetrina dell’edicola, quella con tutte le riviste musicali, poi attraverso la strada e scendo le scale della metro. Le cuffie sono sempre lì, nelle mie orecchie, a ricordarmi perché ho scelto di lavorare nel mondo della musica. Seguo l’indicazione per i treni, giro l’angolo e vedo lui, il chitarrista della metro. Di certo più “underground” di lui non ce n’è. Avrà 50 anni o poco più, indossa una buffa coppola siciliana sul capo, un giaccone verde smeraldo, pantaloni beige e scarpe marroni. Seduto, abbraccia la sua chitarra, suona ma io non posso sentirlo: la musica nelle mie orecchie sovrasta la sua. Mi fermo un attimo ad osservarlo, lui si volta a guardarmi. Dal suo sguardo trapelano tristezza, frustrazione, sconforto. La gente passa, ripassa, ma nessuno mai si ferma ad ascoltarlo o tanto meno a rivolgergli un fugace sguardo. Io non sono come loro. Decido quindi di togliere le cuffie e di dedicargli qualche secondo. Prova a suonare il classico Battisti, non è bravo ma merita comunque la mia attenzione. Accenna un sorriso: non gli importa delle monete che la gente posa nella custodia della sua chitarra, lui vuole solo essere ascoltato. Chissà, magari immagina di essere in un club o in un teatro o addirittura in un’enorme arena e di riuscire a catturare l’attenzione di migliaia di persone con le sue cover arrancate. Oppure prova semplicemente a guardarsi allo specchio attraverso gli occhi dei passanti e prova ad attribuire un valore alla sua vita, che però non supera mai quello delle monete presenti nella custodia della chitarra. Potrebbe chiamarsi Carlo o Giuseppe, potrebbe avere una moglie e tre figli. Oppure potrebbe essere solo, ma non voglio immaginarlo così. Sarebbe troppo triste. Chissà, forse a 20 anni suonava in una band, aveva i capelli lunghi, andava in tour con un furgoncino Volkswagen ed amava una giovane ragazza nordeuropea dai capelli color oro e gli occhi color cielo. Sì, è così che voglio immaginarlo.

Sono in ritardo, non posso più restare ferma lì. Devo viaggiare alla stessa velocità con cui viaggia la mia mente. Mi rimetto le cuffie, sorrido al musicista e, in cuor mio, spero che lo facciano anche i successivi passanti. Perché il sorriso di uno sconosciuto può ricordare ad un musicista il motivo per cui ha scelto di inseguire quella passione, proprio come le cuffie fanno con me tutte le mattine.

Nato per essere Bukowski

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– “Quando ti sei accorto di essere uno scrittore, di avere talento?”

B: “Non ci si accorge di essere scrittore, si pensa di esserlo”

– “Quando hai pensato di esserlo?”

B: “Credo di aver avuto circa 13 anni. Ero pieno di brufoli. Scrissi la mia prima cosa su un quaderno da scuola… Trovai una matita e iniziai a scrivere. Riempii il quaderno di parole. Fu la prima volta che mi fu svelato questo meccanismo. Era bello stare seduti a scrivere sul quaderno con una matita. Scrissi senza interruzione. Mi sembrò una cosa facile e piacevole. Per me rimane ancora una cosa facile e piacevole”

Bukowski frequentava l’L.A. City College che si trova ancora sul Vermont Avenue. Seguiva le lezioni di giornalismo.

B: “Andai al college per due anni ma non combinai niente. Me ne stavo steso sull’erba e non frequentavo le lezioni. Non trovai un lavoro da giornalista. Mi dicevano: “compila il modulo e poi ti faremo sapere”. Non è facile diventare giornalista. “

– “Decidesti tu di non diventare giornalista?”

B: “Se mi avessero assunto lo sarei diventato. Ma sono quasi felice che non sia avvenuto. Cosa potevo scrivere?”

“The Wall” – Pink Floyd

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Ho appena appreso l’incredibile notizia del ritorno di “The Wall” di Roger Waters. Sarà in Italia il prossimo 26 luglio allo stadio Euganeo di Padova e il 28 luglio allo stadio Olimpico di Roma.

Per l’occasione ripropongo un mio vecchio articolo scritto per Eclipse Magazine (www.eclipse-magazine.it).

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“Stavo tentando di dare un senso alla mia vita e in qualche modo, beh sì, devo dire di avercela fatta.” (Roger Waters in un’intervista al Rolling Stone)

 

Mattone dopo mattone, sofferenza dopo sofferenza, Waters ha costruito il suo muro – The Wall – la sua barriera di separazione dalla realtà, dal mondo sensibile in cui si sentiva un pesce fuor d’acqua. La sua vita ha trovato senso nel sodalizio tra la musica e la comunicazione visiva che, come un terremoto, ha buttato giù quel muro all’apparenza insormontabile e indistruttibile. Con “The Wall” Roger Waters ha effettuato un percorso di catarsi interiore e creativa che lo ha condotto alla piena coscienza di sè e degli altri. Se è vero che nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma, in realtà quel muro non è stato abbattuto ma si è tramutato nella forza creativa di Waters.

Prima di entrare nel vivo del disco, occorre analizzare il contesto in cui è stato creato poiché è nella sua genesi che si possono trovare i significati più reconditi dell’intera opera frutto della geniale follia di Waters. Tutto ebbe inizio nel 1977 durante l’ultima disastrosa tappa del tour “In the flesh”. L’impianto audio era talmente scarso da venire coperto dalle urla del pubblico euforico ed indisciplinato. Accadde poi che un ragazzo ubriaco si arrampicò sulla barriera che separava il gruppo dagli spettatori, Waters perse la pazienza e gli sputò addosso. Fu un gesto impulsivo e sconsiderato che segnò il bassista al punto da mettere in discussione il suo rapporto con i fan e con la band stessa. I Pink Floyd erano allo sfascio e, nonostante il loro incredibile successo, stavano finendo in banca rotta a causa di investimenti sbagliati. Per risanare le finanze dovettero produrre un disco in poco tempo. Prontamente arrivò “The Wall”, l’ossessione personale di Waters. Era ricco e famoso ma incapace di sfuggire ai suoi problemi cominciati con la perdita del padre, vittima della Seconda Guerra Mondiale. Decise di reagire come una vera e propria rockstar: si rintanò in una casa isolata nella campagna inglese con la sola compagnia di un sintetizzatore e di un mixer e diede vita ad una grande opera rock nel bel mezzo dell’esplosione punk. Il risultato fu un doppio album costruito su tre livelli d’ispirazione: uno autobiografico, uno derivato dall’osservazione della società e l’altro frutto di puro artificio narrativo. Waters ripercorre in musica l’intera vita di Pink, un personaggio dalla psicologia pirandelliana che attinge all’iconografia della rockstar. Simbolicamente, nel primo disco, le difficoltà e i traumi esistenziali del protagonista vengono rappresentati come singoli mattoni che vanno a costruire un muro di isolamento che lo allontanano dalla realtà, fino alla completa alienazione…”just another brick in the wall”. Nel secondo disco, a muro completato, si ricomincia daccapo: dal vagito, dalla nascita. Pink ricerca i mattoni che hanno costruito il muro per affrontare introspettivamente i propri problemi. Dalla condizione di totale isolamento, cerca di riaprire qualche squarcio verso l’esterno (“Is there anybody out there?”) per giungere al completo abbattimento del muro che lo riporterà finalmente in contatto con il mondo esterno. La struttura scelta da Waters è quindi quella di un doppio percorso, due strade che rappresentano un percorso unico ma anche due vie diverse come fossero paradossalmente due rette sia parallele sia incidenti. La trama narrativa è costruita su molteplici livelli d’interpretazione che diventano parte di un’opera unica come infiniti giochi di specchi, riflessi di vita in cui l’ascoltatore può identificarsi. Uno di questi livelli è quello della follia incarnata da Syd Barrett. Il muro può infatti rappresentare anche la pazzia, la barriera che ci divide dalla realtà, quella stessa barriera che ha separato Syd dal gruppo. Il riferimento al diamante pazzo che per anni ha ossessionato la vita di Roger è rintracciabile nella fragilità della rockstar Pink, nel suo urlo disperato in “Nobody Home”, nel suo deserto interiore causato dalla mancanza di contatti con l’esterno. Che sia proprio la pazzia la via d’uscita? Il rifiuto e la negazione del mondo posso salvarci dal dolore? E’ ciò che si domanda Waters ma è anche ciò che più lo terrorizza e che tenta di esorcizzare.

L’alternarsi di momenti di intimismo lirico, di violenze frammentate spesso scatenate dalla magistrale chitarra di Gilmour, di leit motiv d’impronta classica, di crescendo improvvisi delle tastiere e accordi distanti tra loro su di un tappeto vellutato hanno fatto di “The Wall” un’opera memorabile impressa nei cuori di milioni di ascoltatori in tutto il mondo.

(Fonte: http://www.eclipse-magazine.it/cultura/musica/deep-rock/%E2%80%9Cthe-wall%E2%80%9D-%E2%80%93-pink-floyd.html)